LE R A G I O N I D E L POST
“L'odore acre e pungente dello zolfo che ancora si sente nelle calde giornate di estate.”
Questa cartella vuole essere semplicemente una raccolta di appunti per non dimenticare le zolfare e gli zolfatari, che hanno affrontato la durezza del lavoro di ogni giorno, resistendo alla fatica, alle privazioni ed agli stenti, confortati dai propri valori e dal coraggio senza eguali; per ricordare il sapiente lavoro di generazioni di zolfatari, che hanno dato anche la, vita per la realizzazione di quelle mirabili opere di ingegneria mineraria, un patrimonio storico, culturale e sociale unico al mondo ed irripetibile.
Sugli uomini delle zolfare è stato scritto di tutto, nel bene e nel male,
le zolfare sono state descritte come luoghi di brutture, di depravazioni, di pena e di morte.
In momenti di alterna fortuna, le ragazze da marito non inneggiavano più ai contadini,“ li viddani ” o “ai pastori (li picurara) “, ma intonavano storielle del tipo:
Ma le donne degli zolfatai erano sempre vestite di nero, in segno di lutto, per le numerose disgrazie che succedevano nell’interno delle miniere, nelle viscere della terra. Una cosa, però, non bisogna dimenticare dello zolfataro: il senso dell'altruismo, della solidarietà e del coraggio. Egli, quando accadeva un incidente in miniera, rischiava la propria vita per cercare di salvare quella dei compagni in pericolo. Molti di essi non ritornarono più dalle viscere della terra, a rivedere il sole. Delle vittime del lavoro rimane solamente qualche medaglia, il ricordo, sempre vivo, dei familiari ed i monumenti, eretti in tutti i paesi minerari, per non dimenticare.
Quando uno zolfataio moriva, durante il funerale, un amico ” leggeva “ la vita del compagno di lavoro deceduto. Per uno di loro si disse:
La ricerca del nostro passato è come una necessità vitale per affrontare il futuro. Deve essere un nostro preciso dovere quello di onorare e rispettare il passato della civiltà mineraria.
In questi appunti si potranno ripercorrere le tappe della civiltà delle zolfare, seguendo le tracce che il tempo non è ancora riuscito a cancellare completamente.
Questi luoghi sono dei veri e propri musei a cielo aperto, capaci di coniugare l'aspetto tecnico culturale con il fascino della visione nel contesto originario nei quali sono inseriti: il passato rivive una seconda volta, in un epoca diversa, ma nello stesso spazio di sempre.
MINIERA TRABONELLA
L A D U R A V I T A D E I M I N A T O R I
Il lavoro del minatore era duro, faticoso e dannoso alla sua salute, perché le continue esalazioni di gas velenosi procuravano gravi alterazioni sia al suo apparato respiratorio che a quello circolatorio.
Quotidianamente lo zolfataio - u' pirriaturi - durante la preparazione dei fori per le mine e le operazioni di frantumazione del minerale già abbattuto respirava un'aria satura di sostanze tossiche; con l'andar del tempo perciò veniva colpito da pericolose e fastidiose malattie quali la bronchite cronica, l'enfisema polmonare cronico, la pneumocomiosi.
Le inalazioni dell'idrogeno solforato e dell'anidride solforosa provocavano alterazioni ancora più gravi nell'apparato respiratorio del minatore. Il primo è un gas velenosissimo che si sprigiona dalle acque sotterranee degli strati zolfiferi e, se inalato in grande quantità, causa la morte istantanea dell'individuo.
In casi eccezionali si può sopravvivere, ma si vengono a verificare delle gravi alterazioni del sistema nervoso che durano molto a lungo, spesso tutta la vita.
Per fortuna ciò capitava raramente, perché erano noti agli operai i punti delle gallerie nei quali più facilmente il gas si addensava in forte concentrazione.
Di solito esso era presente in diluizione molto lieve ed era notato dagli operai per un forte bruciore agli occhi. L'anidride solforosa, conosciuta dagli operai con il nome di "fumu", termine che significa "fumo di zolfo che brucia", è un gas fortemente irritante ed irrespirabile.
Esso si sviluppava per l'accensione dello zolfo, eccezionalmente all'interno per incendio ello strato zolfifero determinato dallo scoppio di mine, e regolarmente all'esterno, dove avveniva la fusione del minerale per mezzo dei forni o dei calcheroni (carcaruna).
Causa di morte per gli operai tuttavia non erano tanto le malattie cosi dette professionali, quanto i frequenti infortuni, dovuti a distacco di rocce, frammenti in galleria, esplosioni di grisou (u' dimoniu), incendi, cadute nei pozzi, investimenti di vagoncini, rottura di funi di estrazione, che provocavano a volte gravi disastri.
Non erano rare le contusioni, spesso accompagnate da commozioni e da choc, le ferite multiple, le mutilazioni per scoppi di mine, le ustioni causate dal contatto con la fiamma delle lanterne, con corpi arroventato o con lo zolfo liquido.
E ancora vivo il ricordo di una delle più gravi sciagure minerarie avvenute a Caltanissetta nella miniera
"GESSOLUNGO"
il 14 febbraio 1958, dove trovarono la morte ben quattordici minatori ed altri 54 rimasero gravemente infortunati. Dopo tale, grave sciagura, fu messa a punto ed emanata, nel 1959, la "Legge Mineraria". In virtù di tale legge veniva fatto obbligo ai minatori di indossare una maglietta, un paio di pantaloncini, un elmetto ed un paio di pesanti scarponi.
I primi due indumenti servivano a proteggere l'epidermide in caso di scoppio improvviso, dovuto a presenza di gas infiammabili, l'elmetto a salvaguardarli da crolli rovinosi e gli scarponi ad agevolarli in caso di fughe precipitose fra i detriti e gli spunzoni di roccia. La legge mineraria veniva così cancellare l'abitudine che da sempre avevano i minatori di lavorare completamente nudi o appena coperti da un succinto perizoma, per il caldo eccessivo delle gallerie.
Tali disposizioni si rivelarono quanto mai opportune ed oculate;
tuttavia non annullarono del tutto il verificarsi di disgrazie e di infortuni che, di tanto in tanto, avvengono nelle miniere ancora attive.
I C A R U S I
I "carusi" rappresentarono per molti anni la parte più tragica delle nostre miniere.
Figli di contadini, ma più spesso orfani, figli di ignoti o minorati mentali, con inauditi sacrifici e pochi soldi di retribuzione, procuravano guadagni e ricchezze ai concessionari ed ai picconieri.
I "Carusi" avevano generalmente un'età oscillante fra i 7 ed i 12 anni e trasportavano pesi dai 50 agli 80 Kg. di minerale, secondo l'età e la costituzione fisica. Il "caruso" accettato in miniera riceveva subito dal picconiere il “soccorso morto" (100 o 300 lire) che serviva a tenerlo legato alla miniera.
Tale compenso rappresentava un vero sollievo per la famiglia, che se ne serviva per il matrimonio del "caruso" stesso o di qual che sorella, per i bisogni di una malattia, ecc.
I “Carusi” con il soccorso morto erano mal retribuiti, caricati più degli altri, costretti a fare un maggior numero di viaggi e non potevano allontanarsi dalla miniera perché non in grado di restituire la somma ricevuta.
I “ carusi” deficienti erano trattati da veri schiavi, dormivano nelle stalle, mangiavano i rifiuti del vitto della famiglia del picconiere e venivano assegnati a tutti i servizi più degradanti e più pericolosi.
Per il continuo camminare traballando sotto il carico per quelle vie anguste, avevano le giubbe sbilenche, arcuate; altri, e non pochi, se avevano le gambe a posto, avevano la spina dorsale irreparabilmente curvata.
Lo strazio di quelle giovani vite si leggeva nello sguardo e nel volto.
Pallidi, emaciati, condannati alla tisi ed alla morte precoce, senza aver mai assaporato la gioia di vivere, i "carusi" spesso piangevano ed il pianto era forse il loro maggior conforto.
Piangevano mentre, ricurvi sotto il peso del minerale, salivano la lunga scala che sembrava non dovesse aver fine; piangevano per i maltrattamenti degli uomini, dei mastri cavatoti dei picconieri che, avendo generalmente lavoro a cottimo, ci tenevano a mandare su quanto più materiale potevano e davano quindi ceffoni ai "carusi" un po' tardivi a scendere o a risalire.
Essi erano esposti a frequenti pericoli e qualche volta perdevano la vita per i gas irrespirabili, per i frammenti, le cadute dalla scala, i crolli, gli incendi .
Vite veramente sprecate dunque quelle dei "carusi" siciliani che lavoravano nelle miniere, come ci testimonia pure lo scrittore agrigentino Luigi Pirandello nella appassionata e realistica novella "Ciaula scopre la Luna", e altri poeti, come Ignazio Buttitta ed Alfredo Rutella di cui si riportano due poesie.
M a t r i
chi mannati i figghi a la surfara
iu vi dumannu
pirchì a li vostri figghi
ci faciti l'occhi
si nun ponnu vidiri lu jornu?
Pirchì ci faciti li pedi
si caminanu a grancicuni?
Nun li mannatì a la surfara,
sì pani un nnlaviti,
scippativi na minna
un pizzu di mascidda
ppi sazialli.
Disiddiraticci la morti cchiuttostu;
megghiu un mortu mmezzu la casa,
stinnicchiatu supra un linzolu arripizzatu,
ca lu putiti chiangiri
e staricci vicinu.
Megghiu un mortu cunzatu
supra lu lettu puvireddu
di la vostra casa
ccu la genti chi veni a vidillu
e si leva la coppula
mentri trasi.
Megghiu un mortu dintra
ca vrudicatu sutta la surfara,
cu vuàtri supra dda terra a chianciri
a raspari ccu l’ugna
a mangiarivi li petri
a sentiri lu lamentu
e nun putiricci
livari di ncoddu
li petri chi lu scafazzanu.
Facitìli di surfaru li figghi!
Ignazio Buttitta
C i v i l t à
Quannu l’autri carusi ammizzigghiati
Vannu a la scola senza studiari,
iddu abbuscannu cauci e garciati
già travagghiava intra li surfari.
Ittatu sutta terra criaturi
Nun appi di lu suli la carizza,
nun canuscìu la parola amuri
e si nutrìu di pani e d’amarizza.
Ristò com’un briganti cunnannatu
ppi tantu tempu a ddra vitazza amara
finu ca vecchiu, stancu, già malatu
li so patruna lu jttaro fora.
Oggi assittatu supra lu scaluni,
davanti a ‘ na chiesa soffri ancora:
stenni la manu e fa l’addimannuni!
Alfredo Rutella
I N T R O D U Z I O N E
Lo zolfo, nome latino sulphur, simbolo chimico S è un metalloide. Si presenta di colore giallo, variabile dal giallo miele, al giallo bruno o al giallo verdastro a seconda delle inclusioni minerali. Per quanto riguarda la durezza, è considerato fragile. Presenta un basso punto di fusione, brucia anche alla fiamma di un fiammifero. La fiamma è di colore blu e, durante la combustione, si sviluppa un gas molto irritante, l'anidride solforosa. In natura si rinviene in giacimenti superficiali d'origine vulcanica detti solfatare ed in giacimenti profondi, generalmente da 50 a 450 metri, detti zolfare.
Veniva estratto dalle “ Pirrere” le miniere,il luogo dove venivano svolte tutte le operazioni atte ad estrarlo dal sottosuolo, per poterlo sfruttare industrialmente.
Questo minerale ha caratterizzato non solo il paesaggio ma anche la vita economica e sociale di numerosi Paesi.
Nelle zolfare si trovava, spesso, associato ad altri minerali quali l'Aragonite CaCO3 (carbonato di calcio), la celestina SrSO4 (solfato di stronzio), il gessocristallino.
In alcune miniere, spesso, nelle spaccature e nelle cavità, le cosiddette “garbere" o "varbere" erano trovate le più varie, sfaccettate e splendenti cristallizzazioni dello zolfo, aragonite, celestina ed altri minerali,da sole o associate che i minatori, ogni volta che vi si imbattevano le traevano fuori da quelle nicchie millenarie con delicatezza e se le portavano a casa, ad adornare il canterano o far bella mostra, tra le tazzine del caffè e la statuetta della Madonna o del Santo Patrono. Un qualcosa, insomma, che aveva a che fare con la bellezza; e dunque con l'amore”
RISTALLIZZAZIONI DI SALGEMMA, DI ARAGONITE E DI GESSO
C R I S T A L L I Z Z A Z I O N I D E L L O ZOL F O
Con lo zolfo erano realizzate delle statuette rappresentanti la Madonna o i Santi, oppure cagnolini, pesci, scarpette ed altro, secondo le fantasie degli zolfatari che foggiavano gli stampi, in gesso, dentro i quali versavano lo zolfo fuso.
Alcuni si divertivano a spruzzare, con uno scopino, lo zolfo fuso in acqua fredda, ottenendo dopo la solidificazione, delle forme strane e, spesso, curiose come coralli.
Un classico gioco da bambini era quello di accendere dei pezzi di zolfo e di farlo colare fuso nell'acqua, ottenendo le cosiddette "balateddi di surfaru".
Io sfruttamento dello zolfo risale ad epoche antichissime. Allora, probabilmente, era reperibile anche in superficie e si pensa che già i Sicani nel periodo protostorico lo utilizzassero. E' menzionato nella Bibbia e nell’ Odissea.
Sul Monte Grande, la montagna sacra dei Greci, posta al confine tra il territorio di Agrigento e quello di Palma di Montechiaro, in prossimità del litorale, dagli scavi diretti dal Dott. Giuseppe Castellana della Soprintendenza dei Beni Culturali di Agrigento, a partire dal 1987 e continuati sino al 1997, sono venuti alla luce delle strutture per l'estrazione e la lavorazione dello zolfo, appartenute ad un insediamento Greco e risalenti al XVI - XV sec. a. C.
Questa scoperta è molto importante in quanto dimostra che i Greci, nell'età del bronzo, in epoca anteriore a quella Micenea (XIV sec. a. C.) estraevano e lavoravano lo zolfo, con metodi non molto diversi da quelli in uso sino alla fine del Settecento. Naturalmente il minerale zolfifero si trovava in prossimità della superficie ed, al limite, venivano scavate delle buche nel primo sottosuolo. Per la separazione del minerale dalla ganga, venivano adoperate delle fornaci a canaletta, provviste di bocche dove lo zolfo fuso colava entro formelle di terracotta.
Inoltre sono venute alla luce delle fornaci molto grandi abbastanza simili ai calcheroni, di cui parleremo in seguito.
Presso quel sito ritenuto sacro, in quanto vi era un santuario, per i numerosi oggetti votivi ritrovati, doveva essere presente una comunità molto numerosa, con una organizzazione mineraria per la coltivazione del minerale, piuttosto complessa. Vi dovevano essere gli addetti alla estrazione del minerale, altri al caricamento delle fornaci, altri ancora a regolare la fusione dello zolfo ed altri, infine, provvedevano al trasporto delle balate di zolfo nelle imbarcazioni, pronte a veleggiare, non solo verso la Grecia, ma anche verso il medio Oriente.
Questo sta a significare che, già alla fine del Il sec. d. C., vi furono zolfare coltivate dai Gabellieri dell'Impero romano, dove lavoravano schiavi e delinquenti.
Nell'età imperiale, lo zolfo costituiva uno dei principali prodotti di esportazione della Sicilia.
Venne anche sfruttato nel periodo della dominazione araba (IX - XI sec. d. C.), come riportato negli scritti di geografi arabi, raccolti dallo storico palermitano Michele Amari. In essi viene riferito dell'estrazione del minerale fatta dai picconieri e delle alterazioni prodotte dallo zolfo sul corpo dei lavoratori.
Nell'antichità lo zolfo doveva avere un utilizzo molto vario, che andava dalla disinfestazione delle abitazioni per epidemie all'uso farmacologico ed enologico. Veniva anche utilizzato per aumentare la temperatura nelle fornaci per la fusione dei metalli. Se ne fece un notevole uso, assieme alla pece, come combustibile e per innescare il fuoco.
Le prime opere per la coltivazione del minerale furono delle gallerie inclinate, provviste di scalini, scavati nella stessa roccia, che si approfondivano sino a raggiungere il prezioso minerale che subito erano abbandonate per l'esaurirsi del minerale, oppure per la mancata circolazione dell'aria, che favoriva l'accumulo di gas velenosi o per l'infiltrazione delle acque molto difficile da edurre.
Lo sfruttamento su scala industriale delle miniere di zolfo in Sicilia iniziò nell’ 800 subito dopo la Restaurazione (1821)
ed assunse ben presto un ruolo determinante per l'economia dell'Isola che, con la sempre maggiore quantità di zolfo estratta, vide ben presto aumentare, in campo nazionale ed internazionale, la richiesta di tale minerale.
Nel 1834 le zolfare attive erano 196, tutte concentrate nella fascia centrale dell'Isola, con 88 impianti nel territorio di Caltanissetta e 90 nel territorio di Agrigento.
Le miniere più importanti del bacino minerario nisseno sono state: Trabonella, Gessolungo e Juncio Tumminelli.
/>Ben presto la super produzione portò al verificarsi di due fenomeni, uno dì carattere sociale ed uno economico:
- l'aumento del numero degli operai impiegati all'interno ed all'esterno delle miniere;
- il consolidarsi della "gabella mineraria".l primo fenomeno ebbe come conseguenza l'allontanamento dalle campagne dei contadini e dei braccianti, in breve tempo divenuti picconieri, trasportatori, capomastri di miniera.
Il secondo fenomeno portò ad un più accentuato sfruttamento dei lavoratori, mal pagati, non tutelati, calpestati nei loro diritti.
Da sempre le zolfare siciliane erano sotto il dominio dei Nobili, che raramente sapevano gestirle direttamente.
Essi comunemente le cedevano in gabella a modesti imprenditori, quasi sempre operai privi di denaro, in cambio di una percentuale, detta "estaglio", una specie di contratto per l'esecuzione di lavoro a cottimo.
L' estaglio e la scarsezza di denaro costituirono le due principali circostanze negative che pesarono lungamente sull'attività estrattiva dello zolfo, determinandone la precarietà della struttura.
Di conseguenza perdurarono i primitivi metodi di lavorazione e le difficili ed onerose condizioni dei trasporti del minerale.
Per molto tempo lo zolfo venne estratto esclusivamente per mezzo del piccone ad una sola punta, adoperato a mano con manovra a volata, che richiedeva forza ed abilità.
L'impiego delle mine venne introdotto verso la fine del secolo scorso.
Il minerale estratto veniva messo in cesti e sacchi e trasportato all'esterno a spalla dai "carusi" ragazzini la cui età oscillava fra i 7 ed i 12 anni e che per molti decenni rappresentarono la parte più tragica delle nostre miniere.
In quelle miniere dove le vie di accesso agli strati erano leggermente inclinate e più agevoli, il trasporto veniva effettuato con l'impiego dei muli che potevano sia trasportare il carico con il basto sia trainare dei vagoncini carichi.
I metodi arretrati di estrazione, la vita dura e lo sfruttamento oltre le forze umane erano causa di gravi conseguenze e di danni fisici e morali per i lavoratori.
Con l'avvento e l'uso comune dell'energia elettrica e, di conseguenza, con l'impiego di mezzi meccanici per il trasporto del minerale, nuovi e più razionali impianti costituirono i vecchi criteri artigianali; l'estrazione dello zolfo avveniva attraverso gallerie e pozzi,
dai quali si giungeva negli strati più profondi dove i minatori, con picconi e pale, impiegando i mezzi meccanici, strappavano alle viscere della terra il minerale.
Per liberare lo zolfo si usarono vari procedimenti:
- il processo dei calcheroni (calcaruna);
- il processo del forno Gill; il processo per flottazione.
Il primo, che è il metodo più antico, consisteva nel disporre il minerale solfifero in cumuli più o meno grandi e nel far bruciare la parte dello zolfo presente.
Il calore della combustione provocava la fusione del minerale, che si raccoglieva inappositi recipienti di legno, detti “ gavita
E' facile capire come questo sistema presentasse diversi inconvenienti, dovuti principalmente alla perdita notevole di zolfo, trasformato dalla combustione in anidride solforosa, e al danno che questa arrecava ai lavoratori ed alla vegetazione delle piante coltivate nella zona.
Per tali motivi il processo dei cacheroni venne in gran parte sostituito da sistemi più redditizi e meno nocivi.
Nel processo dei forni Gill il metodo era lo stesso del precedente: lo zolfo veniva liberato dal minerale che lo conteneva mediante la fusione, provocata dalla combustione di una parte del minerale stesso.
Tale operazione veniva però effettuata in appositi “ forni”
col vantaggio di recuperare il calore dei gas che si sprigionavano dalla combustione e di innalzare il rendimento al 60/70 dello zolfo presente nel minerale.
Il Processo per flottazione, il più moderno, diede un volto nuovo alla tecnica della lavorazione del minerale solfifero.
La flottazione si fondava sullo sfruttamento della proprietà che alcune schiume avevano nel captare in modo selettivo i granuli di determinati minerali e di rifiutarne invece altri.
Con tale metodo la separazione dello zolfo dalla "ganga"(minerale di zolfo) era pressoché totale ed avveniva mediante l’ impiego di macchine semplici, di facile regolazione e manutenzione.
La sua applicazione comportava però una sensibile spesa di impianto , la presenza dell'energia elettrica e la disponibilità di molta acqua; pertanto non poteva trovare ovunque possibilità di applicazione.
Nel bacino minerario nisseno il processo di flottazione veniva usato soltanto nella minieraTrabonella.
Fino al 1833 l'industria solfifera ebbe un notevole incremento; la produzione ed i prezzi ebbero un crescendo continuo, ed un certo ottimismo serpeggiò fra gli addetti ai lavori.
Ma col passare del tempo cominciarono ad aversi, sia nei centri di consumo che presso le miniere, notevoli giacenze di minerale.
Si verifica allora il primo rovinoso crollo dei prezzi e la prima crisi investì il mondo minerario siciliano.
La chiusura di molte miniere, la situazione di estrema indigenza in cui vennero a trovarsi i minatori disoccupati, l'allarme e le agitazioni che ne seguirono, costrinsero il Governo di allora ad interessarsi della questione e ad accettare le proposte di una Compagnia francese - la Taix Aycard e C. - che assicurava per dieci anni l'acquisto dello zolfo a prezzi determinati.
Durante il decennio 1896-1906 si ebbe un altro periodo di intensa attività produttiva grazie alla creazione della società Anglo-Sicula; che, con una saggia politica di equilibrio, portò un sensibile miglioramento alla situazione precaria, assicurando la vendita delle giacenze di zolfo a prezzo determinato, contro pagamento alla consegna di circa la metà della produzione siciliana.
Tutto questo diede la possibilità agli industriali di iniziare l'attuazione di più razionali processi di estrazione, codificando ed ammodernando le attrezzature ed i sistemi di lavorazione.
Evidentemente anche gli operai trassero notevole beneficio dalla nuova situazione; le loro retribuzioni vennero aumentate ed il loro duro lavoro divenne meno pesantee più umano, specialmente in quelle miniere più fortunate dove fu introdotta la forza motrice che permise l'impiego di mezzi meccanici.
Se non ché andava maturando per la Sicilia una nuova, lunga crisi che, per gravità, doveva superare tutte le precedenti.
Essa ebbe origine in seguito alla scoperta nella Louisiana di estesi giacimenti del minerale ed all'applicazione di un nuovo, geniale metodo di estrazione, che prese origine dal suo inventore Frasch - mediante il quale era possibile ottenere produzioni a bassissimo costo.
Il metodo Frasch consisteva nel fare uso di una trivella formata da tre tubi concentrici: dal tubo più esteso veniva spinto nel giacimento vapor d'acqua, lo zolfo fondeva, si emulsionava con l'acqua ed era quindi spinto nella parte inferiore della trivella. Qui trovava aria compressa, introdotta dal tubo centrale, che costringeva lo zolfo fuso e l'acqua a salire attraverso il tubo medio fino alla superficie, dove veniva avviato in vasche di raffreddamento.
Lo zolfo così ottenuto era già liberato delle scorie.
Ne seguirono situazioni caotiche, dissesti, agitazioni, rivolte; migliaia di famiglie di minatori piombarono nella più desolante miseria, dato che l'industria solfifera rappresentava nel territorio l'unica possibilità di occupazione.
Ebbero allora inizio i primi timidi interventi governativi; infine, dopo molte e tormentate vicende, venne approvata la legge n.333 del 15.7.1906 che istituiva il "Consorzio obbligatorio per l'industria solfifera Siciliana, durato in attività sino al luglio 1932.
Il compito di detto Consorzio fu principalmente quello di vendere lo zolfo grezzo per conto e nell'interesse comune degli Esercenti consorziati. Esso dovette fronteggiare, sin dall'inizio della sua istituzione, situazioni estremamente difficili per le giacenze di zolfo divenute sempre più ingenti.
Nessun esito ebbero i suoi tentativi per frenare la produzione; solo dopo alcuni anni di incertezze le vendite ripresero a ritmo crescente.
Frattanto per l'isterilirsi di taluni giacimenti e per aver altre miniere raggiunto il livello acquifero, nonché per la ripresa massiccia dell'emigrazione, la produzione andò sensibilmente abbassandosi.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale aggravò ulteriormente la situazione sia per la chiamata alle armi dei lavoratori che per le difficoltà di approvvigionamento dei materiali occorrenti per l'attività mineraria.
Cessata la guerra, l'industria americana rientrò in scena con il suo enorme potere produttivo e mosse alla conquista del mercato mondiale.
Gli effetti della concorrenza americana si fecero immediatamente sentire e nel 1932 si assiste ad una vera e propria catastrofe: produzione, esportazione, prezzi scesero notevolmente.
Il Governo, preoccupato per la oscillante industria mineraria, cercò in vari modi di venirle incontro, ma lo scoppio della seconda Guerra Mondiale e la terribile crisi del 1952 misero definitivamente in ginocchio l'industria mineraria in Sicilia, impossibilitata ad arginare ed a far fronte alla concorrenza americana.
Pur scongiurando la immediata chiusura delle miniere ancora produttive, la richiesta del nostro zolfo andò sempre più diminuendo, fino a determinare, ai nostri giorni, il definitivo arresto delle miniere siciliane.
Chi erano gli uomini delle zolfare?
Pirandello di loro scrisse nella novella "Il fumo":
“... chi erano, infatti, per la maggior parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d'un quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivar la zolfara presa in affìtto, dai Mercanti di zolfo delle marine , che li assoggettavano ad altre usure, ed altre soperchieria. Tirati i conti, che cosa restava, dunque dei produttori? E come avrebbero potuto dare, essi un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiù, esposti continuamente alla morte?...
Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti: per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore alle loro forze su e giù per le gallerie e le scale della buca".
Una bella descrizione ce la dà il Dott.Tinebra Martorana, che nel 1897 così scrisse: "Lo zolfataio è prodigo, anzi scialacquatore, presto a lasciarsi trascinare dall'ira e non restio ad influenza di progresso. La sbornia domenicale è uno dei suoi più graditi, tradizionali e quasi necessari passatempi.
Lavora indefessamente, fra mille disagi e pericoli, ma non perviene quasi mai a raggranellare un gruzzoletto di risparmi. Ama la famiglia e bestemmia come un turco.
La classe più privilegiata è quella dei produttori di zolfo o “gabelloti” delle zolfare. Segue poi quella dei “capi maestri”, che dirigono i lavori, e degli ”impiegati”. I lavoratori si dividono in
Picconieri e Carusi
i primi, a colpi dipiccone , strappano lo zolfo dalle viscere della terra,
i secondi devono portarlo all'aperto, dove viene impostato (messo in posto per la misura della quantità). Altri uomini sono addetti al riempimento dei calcheroni, o fornelli,” inchituri”
altri a regolare la fusione dello zolfo ed a farlo scorrere in apposite forme, “ scarcaraturi"
Nelle zone dove era probabile la presenza del prezioso minerale si iniziavano i lavori di scavo da parte del proprietario del terreno stesso, o da parte di un'altra persona, il cosiddetto "gabelloto" delle zolfare, una sorta di affittuario, che doveva versare al proprietario una quota fissa di estaglio, pattuita nel contratto, che in media era il 25 % dello zolfo estratto dalla miniera.
Questo tipo di contratto impedi la razionale coltivazione dei giacimeti per la breve durata dei contratti stessi nel tempo, per la mancanza di adeguati cognizioni tecniche e, soprattutto, per la necessità di ridurre al minimo costi di impianto e di estrazione che costringevano il gabelloto adutilizzare molti picconieri per sfruttare nel minor tempo possibile i banchi di zolfo che, in genere, non si trovavano mai a grandi profondità. Venivano utilizzate le "discenderie"
, delle strette gallerie inclinate, che rendevano obbligatorio il trasporto a spalla del minerale estratto.L'entrata della miniera era munita di un cancello di ferro, che si apriva sulla scala che conduceva nel sottosuolo. Questo veniva chiuso nei periodi di inattività della miniera per evitare furti.
La coltivazione del minerale era condotta con tecniche primitive: veniva utilizzata manodopera locale a basso costo. Anche l'estrazione del prodotto, puro era oltremodo irrazionale.
Sino al 1850 circa erano adoperate le "calcarelle"o "calcherelle", più antiche fornaci di estrazione che si conoscano, consistenti in delle fosse, circolari, dal diametro variabile da 1,5 a 2 metri, con il pavimento realizzato in battuto con i residui gessosi della combustione del minerale zolfifero e inclinato sul davanti verso il foro di uscita dello zolfo fuso, la cosiddetta”morte ".
Il riempimento della calcarella veniva effettuato dagli "Inchitura”. Questi iniziavano il lavoro partendo dalla parte inferiore del fossato, dove venivano deposti i blocchi di minerale zolfifero più grossi per favorire movimento dello zolfo fuso verso l'uscita. Completato tale lavoro, al di sopra veniva messo altro materiale, sino a realizzare un cumulo. Al tramonto un operaio esperto, il cosiddetto "ardituri", inseriva dei tizzoni ardenti all'interno del materiale che subito prendeva fuoco. Il giorno seguente veniva aperto il foro di uscita della morte e lo zolfo fuso, per mezzo di una apposita canaletta, veniva fatto scorrere nelle "gavite". Quando terminava la fuoriuscita dello zolfo, le calcarelle venivano svuotate dagli "scarcaratura”. Con questo rudimentale sistema di estrazione le perdite dello zolfo sotto forma di anidride solforosa erano molto rilevanti. Infatti, quasi il 70 % del prezioso minerale si disperdeva nell'ambiente circostante, risultando molto dannoso sia per le persone addette ai lavori sia anche per le colture. In seguito, si diffusero i "Calcheroni" o "calcaroni" grandi fosse circolari, dal diametro variabile dai cinque ai quindici metri.
In genere, erano di circa dieci metri,con le pareti in pietra, intonacate con gesso; l'altezza variava, a seconda del diametro, da due a sei metri. Il pavimento era realizzato in battuto di "ginisi", cioè il materiale di risulta della combustione, costituito soprattutto da solfato di calcio ed inclinato verso la parete della cosiddetta "morte", dove si trovava il foro di uscita.
Il riempimento del calcherone veniva effettuato dagli "inchitura" che avevano alle loro dipendenze i carusi più giovani, i quali prelevavano il minerale zolfifero, che era stato estratto dalla miniera, impostato in cumuli, per scaricarlo nella grande fossa. Il materiale più grosso veniva depositato verso la zona più bassa del calcherone, cioè verso la parete della "morte" per favorire la circolazione dello zolfo fuso. Il minerale molto minuto, per evitare che potesse disturbare o soffocare il processo di combustione, non veniva inserito tal quale, ma veniva impastato con l'acqua e pressato, con la zappa, in forme tronco-coniche di lamiera pesante. Si ottenevano i cosiddetti "panuotti", che venivano fatti asciugare al sole, per diventare consistenti. Anche questi, a strati, erano immessinella fornace.
Al di sopra di essa, veniva realizzato un cumulo di minerale zolfifero che, poi, veniva ricoperto con detriti di minerale molto fine, per diminuire l'emissione di gas nell'atmosfera. Man mano che procedeva la realizzazione del cumulo, venivano lasciati alcuni fori di accensione orizzontali. Al momento del riempimento del calcherone, si provvedeva a murare, con una malta di gesso, la parete della morte, dalla quale si doveva avere la colata dello zolfo fuso , che era stata abbattuta per lo svuotamento dello stesso. Una volta completato tale lavoro, "I’ardituri" dava fuoco al cumulo, inserendo dei tizzoni ardenti nei fori, precedentemente preparati, che poi, non appena iniziava la combustione del minerale,occludeva con detriti.
La combustione durava per alcune settimane ed anche qualche mese, in funzione delle dimensioni del calcherone stesso e del tipo di materiale zolfifero. Una parte dello zolfo, bruciando, provocava la fusione di quello rimanente che, passando allo stato liquido, era raccolto al fondo del calcherone stesso, da cui, attraverso un'apposita uscita detta "morte", per mezzo di una canaletta, era raccolto in appositi stampi di legno, le "gavite", di forma tronco piramidale che, preventivamente, venivano bagnate, per non farvi aderire lo zolfo che, raffreddandosi, si solidificava in forme dette "balate" o pani di zolfo, dal peso di circa 50 - 60 chili. Lo scassettamento delle gavite avveniva dopo circa venti, trenta minuti. Queste venivano ammassate, in attesa del trasporto, verso i moli di imbarco.
Era "l'ardituri"che, toccando la parete della morte decideva il momento in cui si doveva bucare la stessa, per fare defluire lo zolfo fuso. Per effettuare questa operazione si serviva di un'asta facendo molta attenzione per evitare gli schizzi.
Terminato il deflusso dello zolfo, lo svuotamento del calcherone veniva effettuato dagli "Scarcaratura" che avevano alle loro dipendenze molti carusi. Abbattuta la parete della morte, il materiale residuo era portato alla discarica che si trovava a valle dello stesso.
Il materiale di risulta, detto "ginisi" da cui il nome di "ginisara" dato alle discariche, costituito dai rosticci residui della ganga legata allo zolfo, ha costituito, nel tempo, degli accumuli, anche di notevoli dimensioni, che ancora si riscontrano a valle delle vecchie miniere di zolfo. Il rosticcio si
presenta friabile quando abbonda la frazione argillosa; molto compatto, quando prevale il carbonato di calcio. Questo materiale è utilizzato, come tout venant per la pavimentazione di strade. Con questo sistema di estrazione, una parte dello zolfo, pari al 40 -45%, andava perduta sotto forma di anidride solforosa che provocava nelle zone circostanti le miniere la scomparsa della vegetazione ed un'atmosfera irrespirabile.
Per evitare, per quanto possibile, siffatti danni alle colture, i calcheroni venivano accesi a partire dal primo agosto, quando il grano era già stato raccolto e le mandorle indurite. Tale processo terminava il ventuno dicembre.
Il "Direttore" dei lavori, figura presente nelle grandi miniere, rappresentava la mente di tutta la complessa organizzazione mineraria. Tutto il personale era alla sua diretta dipendenza, dava conto del suo operato solamente proprietari della miniera; li rappresentava in tutti gli atti giuridici verso terzi. Il bravo direttore era quello che sapeva ben gestire la miniera, assegnatagli, facendo fruttare al massimo il bacino minerario e curando la prevenzione, per quanto possibile, degli incidenti. Curava la redazione dele carte minerarie, tracciava i nuovi cantieri di lavoro e le vie di riflusso per migliorare la ventilazione nei cantieri. Tutti i lavori effettuati venivano rilevati e redatti su apposite carte minerarie. Alla fine di ogni anno preparava una apposita relazione, corredata dalle carte minerarie, che veniva trasmessa, al Corpo Delle Miniere di Caltanissetta. Nel suo lavoro di organizzazione di tutti i servizi minerari, era aiutato dai "Capomastri", in genere ex picconieri che si erano distinti per la grande competenza e capacità tecnica, acquisita negli anni di lavoro trascorsi in miniera. Essi avevano l'interesse che i lavori procedessero nel migliore dei modi e, per quanto possibile, in sicurezzza. Davano tutte le disposizioni alle squadre di operai sul modo di procedere dei lavori all'interno della miniera; agivano in piena libertà, forti della Ioro esperienza, assumendosi, di contro, tutta la responsabilità del loro operato. Spesso erano delle brave persone, ben viste sia dai carusi, in quanto li difendevano dalle angherie dei picconieri, che dagli stessi picconieri,per i quali, conciliavano aspre liti insorte tra di loro, anche per futili motivi. La loro paga era di molto superiore a quella degli altri operai.
A volte i capomastri, dopo aver raggranellato un gruzzoletto di denaro, cercavano di mettersi in proprio, diventando gabelloti. Però, spesso le cose andarono loro male, come a quello della miniera Balata Liscia di Comitini
Lu capumastru di Balata Liscia,
nun si potti saziari di minestra.
Gli "Impiegati" tenevano soprattutto i conti. Il loro compito era molto importante, specie nelle grandi miniere, in quanto dovevano segnare per ogni lavoratore tutte le giornate di lavoro da retribuire, deducendo gli eventuali acconti già ricevuti; tenere il conto della produzione e delle vendite; tenere la contabilità del magazzino, segnando le entrate e le uscite di tutto il materiale occorrente per l'esercizio della miniera. Inoltre, dovevano annotare per iscritto tutte le relazioni fornite dai capomastri, pesatori, magazzinieri, sorveglianti, al fine di compilare un esatto bilancio annuale di tutti i movimenti, sia di cassa che di materiali, da fornire ai proprietari della miniera.
I "Magazzinieri" badavano alla tenuta della contabilità di magazzino con la registrazione, in entrata ed in uscita, di tutte le attrezzature tecniche ed il rifomimento, agli operai, dei materiali di consumo di cui avevano bisogno, come, ad esempio, la fornitura giornaliera del carburo di calcio
necessario per il funzionamento delle lampade ad acetilene; registravano anche tutte le balate di zolfo prodotte e quelle pesate dai "Pesatori" con il "bilicu"
e caricate per essere trasportate verso i moli di imbarco. A fine anno curavano la redazione dell'inventario.
I "Guardiani" avevano il compito di vigilare per evitare furti di zolfo o di materiali vari. Badavano che nessun pezzo di minerale venisse tolto dai cumuli di zolfo, impostati e non ancora misurati, ad opera di picconieri furbi, per aumentare il proprio utile, in quanto la loro retribuzione avveniva secondo il numero di casse da miniera riempite dai carusi alle loro dipendenze.
Nell'officina lavoravano alcune categorie di operai: i fabbri, i meccanici e gli arganisti. Erano alle dipendenze del Capo officina. Nelle miniere dell'agrigentino venivano soprannominati "nivuri" (neri), in quanto avevano sempre le mani ed il volto imbrattati di grasso e carbone. Erano una categoria privilegiata, rispetto agli altri operai perché espertissimi nel lavorare il ferro. Riparavano tutti gli strumenti di lavoro quali picconi, asce, zappe, pali. Nelle miniere ammodernate, provviste di piani inclinati o pozzi di estrazione verticali, che utilizzavano motori a vapore o elettrici, provvedevano ad aggiustare le rotaie, i vagoncini e tutte le attrezzature metalliche, nonché alla messa in opera ed alla manutenzione dei motori, argani, pompe, compressori, frantoi e tutte le macchine ed attrezzature meccaniche presenti, sia all'intemo che all'esterno della miniera. All'intemo della miniera i lavori in profondità venivano effettuati secondo la naturale stratificazi one del minerale, attraverso il filone principale o ”stratu". In tal modo, venivano realizzate delle gallerie, orizzontali od inclinate, in tutte le direzioni.
I filoni secondari, detti "vaniddara" e "rinazzola", di norma, non venivano utilizzati per il basso contenuto in zolfo, però venivano anch'essi sfruttati nel caso di aumenti del prezzo del minerale.
Per sostenere la massa di materiale, sovrastante le gallerie ed i cantieri di lavorazione, spesso facilmente cedevole, venivano lasciati dei grandi pilastri di minerale detti colonne e nelle gallerie venivano determinate le dimensioni delle volte e delle mura, gli archi e le pastoie interne.
Spesso i proprietari o i gabelloti e, a volte, anche gli stessi capomastri, per ignoranza o ingordigia, facevano estirpare lo zolfo anche dalle colonne e dalle pastoie interne, che rappresentavano l'unico mezzo di sostegno delle gallerie. Con la diminuzione di questi baluardi, si verificavano spesso immani crolli con numerose vittime.
L'accesso agli "avanzamenti", cioè il luogo dove si estraeva il minerale solfifero, dall'estemo della zolfara, avveniva attraverso le "discenderie" provviste di scale, scavate nella stessa roccia: a rampa semplice, nel caso di basse pendenze, e a due rampe sfalsate, dette a "scalone rotto"nel caso di notevoli pendenze.
Tali scale si andavano allungando con il progredire dei lavori a maggiori profondità. Lungo queste scale salivano i "carusi" carichi di minerale.
Man mano che si scendevanelle viscere della terra,la puzza del minerale ed il fumo della polvere nera, adoperata per l'abbattimento del minerale nei cantieri di lavorazione, rendevano l'aria irrespirabile.
Anche per l'opprimente calore, i lavoratori diventavano intrattabili e bestemmianti.
Il lavoro di estrazione veniva effettuato dai "pirriatura", i picconatori che, a colpi di piccone, preparavano l'inizio della perforazione: con il palo, una lunga asta di ferro con la punta di acciaio, perforavano la roccia; con la "busa", un'asta di metallo lunga circa un metro e terminante a cucchiaino, estraevano il pietrisco e la polvere che si accumulava nella perforazione; mettevano l'esplosivo nella stessa, sotto forma di cartocci (a quei tempi era adoperata la polvere nera, una miscela costituita da carbonella di legna, salnitro e zolfo). A questi erano collegate le micce e, a seconda della lunghezza della perforazione, erano utilizzati uno o due cartocci di esplosivo, che venivano inseriti in fondo per mezzo di un paletto di legno.
Nella restante parte della perforazione venivano inseriti dei cartocci ripieni di materiale non esplodente, che venivano pressati, per sigillare la carica inserita ed ottenere la necessaria pressione di scoppio. Terminate tutte queste operazioni, si dava fuoco alle micce dell'intera volata, iniziando da quelle che erano state lasciate più lunghe. Gli operai si mettevano al riparo, in una traversa della galleria, in attesa delle esplosioni delle cariche, che avvenivano con grande fragore. Le esplosioni non avvenivano simultaneamente per la diversa lunghezza delle micce. I botti venivano contati per controllare se le esplosioni corrispondevano al numero complessivo delle cariche immesse nelle perforazioni. Se il loro numero era inferiore a quello delle cariche inserite, nel cantiere si entrava dopo molto tempo, per essere sicuri che la carica inesplosa non esplodesse in ritardo. Però, nonostante queste precauzioni, a volte succedevano degli incidenti dovuti allo scoppio molto tardivo di qualche carica. Per eliminare il pericolo della carica non esplosa. accanto alla stessa, veniva effettuata una perforazione, con l'immissione di un'altra carica, che veniva fatta esplodere da sola. In tal modo, come si diceva in gergo, "per simpatia" si aveva anche l'esplosione di quella inesplosa. Altra causa di incidenti poteva essere quella di entrare molto presto nel cantiere, dato che si lavorava a cottimo. A volte, qualcuno, per guadagnare tempo, in quanto un bravo picconiere poteva preparare a massimo tre perforazioni al giorno, per risparmiare la fatica di preparare un'altra perforazione e per non perdere quelle poche lire di esplosivo, cercava di recuperare, utilizzando la busa, il cartoccio inesploso. Per, qualche scintilla, a volte provocava l’ innesco della carica che per la mancata pressione, dato che erano stati tolti i cartocci non esplodenti, non scoppiava e la fiammata usciva dalla perforazione, provocandogli delle gravissimi, ustioni soprattutto al viso ed al petto.
Non appena diminuiva il fumo, per prima cosa venivano fatte crollare, le pietre pericolanti per evitare incidenti. Questa delicata operazione, detta “sgaggiatura", veniva effettuata dai picconieri. Gli stessi, poi, provvedevano alla rottura delle pietre grosse, che venivano "mazziate". cioè rotte con la “mazza", un pesante martello dal peso variabile da 3 a 5 chili. Una volta riempiti, i sacchi di iuta, oppure i "cuffuneddi" realizzati con foglie di palme nane, della capacità di circa 50 chili, con gli "stirratura", recipienti conici realizzati dall'intreccio di rametti sottili e flessibili, che venivano riempiti con la zappa (uno stirraturi completamente pieno pesava circa 35 chilogrammi)
venivano trasportati all'esterno della miniera dai carusi. Questi, con il carico sulle spalle, protette solamente da uno straccio arrotolato, che fungeva da cuscinetto, la cosiddetta "chiumazzata", procedevano attraverso le buie e scivolose scale, facendosi luce con le cosiddette “ le lumere", che erano delle lanterne di terracotta funzionanti ad olio ed in seguito con le lampade ad acetilene, le cosiddette "citalene", provviste di manico per il trasporto, o di un solido gancio per potere essere appese anche sulle pareti delle gallerie. Erano di metallo a forma cilindrica e costituite da due serbatoi separati: quello sovrastante veniva riempito con l'acqua e l'altro con il carburo di calcio. L'acqua, per mezzo di una valvola gocciolava, nel serbatoio sottostante sul carburo di calcio, dando luogo all'acetilene, gas facilmente infiammabile, che usciva all'esterno da un apposito ugello, detto "beccuccio". Avvicinata la fiammella di un fiammifero, il gas subito prendeva fuoco, con produzione di luce. La fiamma, e quindi l'intensità luminosa, veniva regolata attraverso la valvola che faceva affluire più o meno acqua nel serbatoio del carburo.
Il picconiere, dato che in miniera era molto difficile effettuare i controlli, lavorava a "cottimo", e veniva pagato secondo il numero di casse da miniera riempite. Queste erano dei contenitori in legno, dalle dimensioni variabili da miniera in miniera, in quanto i proprietari alteravano, a loro piacimento le misure. In origine le casse dovevano essere quadrate, con il lato di due canne siciliane (2,06 metri) e l'altezza di una (1,03 metri), quindi dalla capacità di circa quattro metri cubi. I “Carusi", fanciulli adolescenti dai sette ai diciotto anni (a volte qualcuno rimaneva caruso per tutta la vita), lavoravano alle dipendenze del picconiere, che li reclutava presso le famiglie bisognose dando loro un anticipo in derrate alimentari, soprattutto grano e farina, equivalente a 1 00 o 150 lire, a seconda dell'età del giovane e della capacità di portare carichi, come se si trattasse di una bestia da soma. In questo modo il picconiere poteva disporre del caruso e lo obbligava ad effettuare, almeno, venti viaggi al giorno, con il pesante sacco caricato sulle spalle, lungo le faticose scale, dal fondo della miniera sino all'esterno, per svuotarlo al posto di scarico assegnatogli. I carusi lavoravano da otto a dieci ore al giorno. Il numero dei viaggi era variabile per giornata in funzione della profondità della miniera e della lunghezza delle gallerie. Essi salivano in fila, uno di seguito all'altro, con difficoltà, su per gli scalini, gementi e grondanti di sudore, curvi sotto il pesante carico. Una volta svuotato il sacco, lo rimettevano sulle spalle e rientravano in miniera per almeno venti volte, senza concedersi soste, eccetto che per consumare il magro pasto. Se uno di essi si fermava, bloccava tutta la fila. Il caruso più celebre rimane Ciaula dell'omonima novella pirandelliana "Ciaula scopre la luna", che si distingue per la sua poeticità ma anche per il suo valore di documento storico-sociologico. Di essa riportiamo, ai fini del nostro discorso, un passo assai significativo: "Ciaula, con la lumierina a olio nella rimboccatura tra del sacco su la fronte. e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala; sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, col fiato mozzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi in un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole... "
Per tenere il conto dei viaggi, i carusi racalmutesi recitavano una cantilena a voce alta:
"Unu lu vaiu a pigliu,
diciannovi mi n'arrestanu di pena"
alla fine della faticosa e gravosa risalita della scalinata della "discenderia":
"Ora c'acchianammu nni lu chianu,
viva Diu e San Gaitanu"
vicino alla catasta, dove avveniva il deposito del minerale:
"Semmu iunti a la catastedda,
viva santa Barbaredda"
all'ultimo viaggio, stanchi, però felici di avere terminato una dura giornata di lavoro, così si esprimevano:
"Cci l'haiu a diri a lu ma pirriaturi ca chistu
è l'urtimu e si nni po' acchianari".
Il ricavo, per giornata di lavoro, assommava a lire 0,80 "a scalare", cioè da togliere alla somma data in anticipo al genitore. Ogni picconiere aveva alle sue dipendenze più di un caruso, in genere da due a quattro.
La durezza del lavoro, la carente alimentazione, la giovane età di questi ragazzi, costretti a sopportare dei carichi sproporzionati, contribuirono alla creazione di un notevole numero di persone con gravi deformazioni ossee a carico, soprattutto, della colonna vertebrale, con gobbe, menomate e, spesso, mutilate a causa dei numerosi incidenti. Molti perirono nelle miniere.
Un antico canto racalmutese di carusi così recita:
Mamma mia, nun mi mannati a la pirrera,
ca notti e iornu mi pigliu turrura
a mala pena scinnu a la pirrera
s'apri lu tettu e cadinu li mura.
Accussì voli la mala carrera
Fammi pigliari sempri di paura.
Madre mia, non mandatemi in miniera,
perché mi terrorizzo,
con difficoltà si scende in miniera,
si spaccano le volte e crolla tutto.
Così vuole l'amaro destino
Farmi prendere sempre di paura.
Oppure:
Mamma mia nun mi mannati a la pirrera,
ca notti e iomu mi pigliu turrura
ca c'è na scala cu cientu scaluna,
ca cu scinni vivu, muortu sinn'acchiana.
Madre mia, non mandatemi in miniera,
perché mi terrorizzo,
c'è una scala con cento gradini,
che chi vi scende vivo, da morto la risale.
I proprietari delle miniere o i gabelloti spesso non pagavano gli operai regolarmente ogni settimana, come di solito pattuito, ma ogni tre o quattro mesi, a volte anche con maggiore ritardo, adducendo come scusa il mancato pagamento da parte dei commercianti. Per "venire incontro" agli operai, concedevano i cosiddetti "soccorsi" costituiti, principalmente, dalle derrate alimentari, di cui avevano bisogno.
A seguito delle ricorrenti crisi del mercato dello zolfo, essi istituirono le "botteghe di miniera", i cui addetti erano chiamati "Putiara". Queste erano fondamentalmente degli spacci dove venivano vendute derrate alimentari spesso scadenti a prezzi maggiorati. Quando venivano ritardati i pagamenti, si apriva la "credenza", cioè il credito.
Gli zolfatari erano costretti a comprare presso la bottega del proprio datore di lavoro, sia perché i bottegai non facevano loro credito, sia per paura di essere licenziati e sia perché, per la distanza dal paese, non potendo effettuare il viaggio di andata e ritorno a piedi, erano costretti a rimanere sul posto, accomodandosi come potevano.
Il sabato sera rientravano in paese ed il lunedì, prima dell'alba, ripartivano per la miniera. Gli zolfatari vedevano il sole soltanto la domenica: col buio partivano verso le miniere; nel buio lavoravano nelle viscere della terra; col buio ritornavano stanchi ma contenti alle proprie case, per godersi il meritato riposo, pensando: "chissà se domani sarò ancora così fortunato". Mangiavano e bevevano, il vino non mancava mai e, poi, si recavano in piazza o al circolo di categoria. Altri per, "sbariarisi la testa", cioè per dimenticare la paura, l'angoscia e la brutalità del lavoro andavano a sbronzarsi nelle botteghe dove si vendeva vino, le cosiddette "putii di vinu", il luogo ideale per scaricare pensieri e malinconia.
"Lu surfararu", un antico canto racalmutese, così recita:
Cu st'arti mpami di lu surfararu
ca matina a sira camina a lu scuru
e di la vita so mancu è sicuru.
Quannu veni la festa
si nni va a la tavema e tantu vasta.
"Purtassi vinu e tri cannati abbasta".
Lu tiempu passa e si sbaria la testa.
Veni lu luni e cala a la pirrera,
arriva a lu locu cu dda gran calura
si minti a travagliari senza paura.
Piglia lu palu e antu lu sulleva
e lu pirtusu caccia e poi spara.
E travagliannu sempri sina a la sira
cu dda miseria stancu acchiana fora.
Questo mestiere infame, che è quello dello zolfataro,
che mattina e sera cammina al buio
e non è neanche sicuro della sua stessa vita.
Quando viene la domenica,
se ne va alla taverna e questo gli basta.
"Porti del vino, tre cannate sono sufficienti".
Il tempo passa e si distrae la mente.
Viene il lunedì e scende in miniera
Arriva sul posto di lavoro, dove fa un caldo intenso
E inizia a lavorare senza paura.
Prende il palo e lo solleva in alto,
prepara il buco, mette l'esplosivo e poi spara
e lavorando, senza posa, sino alla sera,
con la sua miseria, stanco, risale in superficie.
Il picconiere per il duro e pericoloso lavoro, amava bere, giocare a carte, sperperare la domenica tutti i soldi che aveva guadagnato durante la settimana, era prepotente e litigioso. Però, era notorio il suo senso della solidarietà e del coraggio. Difatti, se nella miniera succedeva un incidente, per qualsiasi causa quale il crollo di una volta, una frana, un allagamento, lo scoppio del grisou, le gallerie invase da gas velenosi, egli diventava un eroe, capace di rischiare la propria vita, per salvare quella dei compagni di lavoro in pericolo. Spesso perdeva la propria vita nel vano tentativo di salvare quella degli altri.
All'interno delle miniere, lavoravano altre categorie di operai.
Li "Spisalora" erano gli addetti alle opere di manutenzione interna delle gallerie e delle vie di riflusso: provvedevano alla costruzione dei tronchi tra le diverse gallerie, per migliorare la circolazione dell'aria, con l'abbattimento e lo sgombero delle rocce sterili; inoltre controllavano i binari. Venivano detti così perché il loro lavoro era "a spese" della miniera, non dava un reddito reale, in quanto questa categoria di operai non contribuiva, direttamente, all'estrazione dello zolfo. Lavoravano alle dirette dipendenze dei cosiddetti "Capi spisalori" ed erano retribuiti a giornata.
Gli "Acqualora", detti in seguito "Trummiatura", erano gli addetti alla eduzione delle acque che si
raccoglievano nelle gallerie. Anticamente erano utilizzate le "quartare”, brocche di terracotta che, una volta riempite nelle fosse di accumulo, venivano portate fuori dalla miniera a spalla. In seguito si diffusero le pompe a mano, dette "trummi" che, collegate ad apposite tubazioni, avviavano l'acqua direttamente in superficie. Con l'elettrificazione delle zolfare furono adoperate le pompe azionate da motori elettrici: quelle di tipo centrifugo per il collegamento tra i diversi bacini di raccolta all'interno della stessa miniera; quelle a pistoni per portare l'acqua dal recipiente principale all'esterno della miniera. Gli addetti alle stesse furono denominati "Pompieri” e dipendevano dal capo officina.
Da questi lavoratori abbiamo appreso. come soleva dire lo scrittore Leonardo Sciascia, "Grevi leggende di terra e di zolfo, oscure storie squarciate dalla tragica luce bianca dell'acetilene ".
In miniera si lavorava tanto e si guadagnava poco. Infatti la voce popolare così gridava:
A Gibillini nun si vusca pani,
a Sacchitieddu mancu un maccicuni.
Alla miniera Gibellini si guadagna poco,
alla Sacchitello ancora meno.
Nelle campagne, però, non si stava poi tanto meglio. Difatti, con l'abbattimento della società feudale del 1812, non si ebbero i risultati che i legislatori si attendevano poiché i baroni o i latifondisti, spogliati nei loro interessi feudali, consolidarono la loro posizione economica e legittimarono molte usurpazioni quali diritti. In conseguenza di ciò, vi fu un limitato movimento di liberazione dei contadini dal servaggio e non si riuscì a costituire una forma di piccola proprietà coltivatrice, e rimase insoluto il problema delle classi lavoratrici agricole. Le condizioni dei contadini erano ancora quelle di soggezione ai grandi proprietari terrieri, i quali erano padroni assoluti delle terre loro assegnate, interessandosi poco o niente di agricoltura. La maggior parte di essi vivevano nelle città godendo delle rendite delle proprie terre, date in affitto, affinché le facessero sfruttare ad una nuova classe di affittuari, i "gabelloti" ed i mezzadri, esigendo da loro la metà di tutto il ricavato. Questi, per rifarsi erano costretti a maltrattare i lavoratori, giornalieri o braccianti, che guadagnavano mezza lira al giorno e, poiché il grano costava 0,20 lire al chilo, lavoravano una intera giornata per guadagnarne due chili e mezzo.
Il guadagno dei contadini era inferiore rispetto a quello degli zolfatari, che spesso venivano pagati in contanti.
Questa era la distinzione tra “lu surfararu" che aveva sempre dei soldi in tasca e "lu viddanu" che poteva raggranellare qualche spicciolo alla raccolta dei prodotti, sempre che ci fosse stata una buona annata, in quanto il suo lavoro era, da sempre, legato al susseguirsi, incerto, delle stagioni.
Per le strade dell' Aragona ottocentesca, come riferisce il Prof. Damiano Gaziano nella sua pubblicazione "Aragona e i suoi Principi", le ragazze da marito non inneggiavano più ai contadini, "li viddani" o ai pastori, "li picurara'”, ma intonavano stornellate del tipo:
Cu surfararu m'haju a fari zita,
ca iddu lu sciallu mi lu fa di sita".
Con lo zolfataio mi devo fidanzare,
perché lui lo scialle me lo compra di seta
Oppure:
“surfararu lu vogliu e no viddanu,
ca di sita mi lu fa lu fallarinu".
Zolfataio lo voglio e non contadino,
che di seta mi compra il grembiulino.
Le donne degli zolfatari erano sempre vestite di nero, in segno di lutto, per le numerose disgrazie che succedevano all'interno delle miniere, nelle viscere della terra.
A Racalmuto, quando uno zolfataro moriva, prima di arrivare al cimitero, il corteo funebre si fermava presso la "Cruci", posto chiamato così perché vi era allora, e vi è ancora oggi una cappella votiva, sormontata da una grande croce di ferro, ed un amico "leggeva" la vita del compagno di lavoro
deceduto. Per uno di loro, si disse:
Travagliasti a lu Dammusu,
travagliasti a Gibillini,
travagliasti a la tri e sei,
onuratu di mia e di tutti li cumpagni.
Futtitinni si muristi.
Hai lavorato alla miniera Dammuso,
hai lavorato alla Gibillini,
hai lavorato alla Numero sei,
onorato da me e da tutti i tuoi compagni.
Fregatene se sei morto.
La vita valeva veramente poco: la sicurezza per la prevenzione degli incidenti, la salute dei lavoratori, l'incolumità erano tenute in scarsa considerazione. Il sistema di coltivazione delle zolfare per colonne, archi e pastoie, era molto pericoloso in quanto spesso si verificavano improvvisi crolli e sotto il materiale caduto rimanevano vittime i lavoratori. Molti di essi rimasero sepolti nelle gallerie, senza mai potere essere estratti, per il pericolo che correvano i soccorritori, quando nelle gallerie crollate veniva tolto del materiale, per potere avanzare nelle stesse alla ricerca dei compagni di lavoro dispersi.
Durante il funerale una persona diventava importante ed onorata da parte di tutti, poi tutto finiva e l'indomani si tornava a lavorare come se nulla fosse accaduto. Ognuno pensava: "Speriamo che domani non tocchi a me la stessa malasorte". Solo i familiari restavano nello sgomento e nella disperazione, anche per la mancanza di sussidi o pensioni.
In miniera tutte le fasi del lavoro, anche le più semplici e banali, erano sempre insidiate dal pericolo.
Tra le cause principali di incidenti, quasi sempre mortali, sono da ricordare i crolli delle volte delle gallerie, talora con successivo incendio del minerale per sfregamento tra le stesse rocce in fase di caduta, gli incendi del minerale per qualsiasi causa, lo scoppio di gas altamente infiammabili, l'avvelenamento da gas velenosi.
Per quanto riguarda le infiltrazioni di acqua, l'attività di estrazione, in genere, subiva un rallentamento e di per sé non era da considerare causa di rischio per gli operai. Però l'allagamento improvviso delle gallerie per la captazione di qualche sorgente, oppure l'infiltrazione delle acque in miniera, nei periodi invernali, poteva determinare la perdita della consistenza delle rocce causando frane anche di una certa entità, con notevole rischio per le persone che vi lavoravano. Quando l'acqua era in quantità notevole e tale da non potere essere avviata in superficie, i cantieri o l'intera miniera venivano abbandonati. Nel 1903 la miniera Taccia Caci di Aragona, della famiglia Pirandello, fu abbandonata a seguito di un allagamento.
Nelle zolfare dell'Ottocento, tra le cause principali dei grandi disastri era il crollo improvviso delle volte delle gallerie dovuto, soprattutto, al sistema di coltivazione del minerale per pilastri, archi e pastoie.
Spesso, per l'avidità dei proprietari o dei gabelloti o degli stessi picconieri, nel caso di capomastri compiacenti che, lavorando a cottimo, estirpavano il minerale zolfifero dai pilastri, assottigliandoli, senza considerare che queste erano gli unici baluardi di sostegno delle gallerie e dei cantieri di lavoro.
I pilastri e le pastoie interne, che costituivano la base, sostenevano gli archi, cioè le volte delle gallerie ed erano costituiti dello stesso materiale, spesso, molto ricco in zolfo e, per questo, facile ad estirparsi. Assottigliati i sostegni degli archi, spesso, si verificavano crolli improvvisi nelle gallerie, con tragiche conseguenze per le persone che vi lavoravano.
Altra causa di incidenti era lo sviluppo del fuoco all'interno delle zolfare dovuto, principalmente, allo sfregamento delle rocce, durante i crolli, oppure, accidentalmente, a seguito di esplosione delle mine per l'abbattimento del minerale nei cantieri di lavoro.
Lo scoppio delle mine provocava, a volte, dei piccoli incendi localizzati detti "vamparotta", che venivano facilmente domati. A volte, però, l'errato uso di esplosivi in cantieri molto ricchi in zolfo, determinava incendi di vasta portata con esiti tragici per gli operai. Altra causa di incidenti era il grisou, detto "antimonio" che dava luogo ad esplosioni con tragiche conseguenze per i lavoratori,
come successe nella miniera Cozzo Disi di Casteltermini.
Questo disastro avvenne il 4 Luglio 1916 ed in quella miniera perirono 89 operai e 35 rimasero feriti.
Altro pericolo era rappresentato dall'acido solfidrico, detto "agru", il cui gas, se respirato, era micidiale per gli zolfatari. Frequenti furono i casi di asfissia ed avvelenamenti per effetto di questo acido che si trovava, generalmente, in prossimità delle acque e lo sviluppo del gas era maggiore quando le stesse venivano agitate.
Altro gas che, a volte, dava luogo ad intossicazioni anche mortali, era l'anidride carbonica, detta "rinchiuso", che si formava dalla decomposizione dei tufi calcarei ed argillosi, dai processi di combustione e dalla respirazione degli stessi operai. Questo gas è più pesante dell'aria ed il suo accumulo nelle gallerie avveniva lentamente quando era difettosa l'aerazione delle stesse. La sua presenza era avvertita dallo spegnimento delle lampade a fiamma nuda, e per questo segnale gli operai potevano mettersi in salvo.
Nelle zolfare gli infortuni furono molti. Spesso non venivano denunciati neanche alle Autorità di Pubblica Sicurezza. Nel caso di incidenti clamorosi, con numerose vittime, le denunce erano sempre generiche e non si registrarono mai delle vere e proprie responsabilità sulle cause dell'accaduto. Quando vi potevano essere delle responsabilità, le prove venivano distrutte e gli stessi testimoni si rifiutavano di parlare per non essere licenziati.
Nell'area mineraria in esame, soprattutto a Casteltermini, si registrarono tragici incidenti, con numerose vittime. Le prime statistiche, approssimative, si ebbero a partire dal 1867. Esse riguardavano il genere degli infortuni, le cause, il numero dei morti e dei feriti. Tali statistiche erano riportate nelle relazioni del servizio minerario a cura del Reale Corpo delle Miniere, alle dipendenze dei Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, istituito con la legge mineraria del 20 novembre 1859 n. 3755, con compiti di controllo e vigilanza sull'esercizio delle attività minerarie, inteso sia a salvaguardare la migliore condotta delle lavorazioni sia a tutelare le maestranze, assicurando la prevenzione degli infortuni e l'igiene del lavoro.
Nel 1860 fu istituito il Distretto di Caltanissetta, che comprendeva tutto il territorio isolano. Con la L. R. del 29 Luglio 1958 n. 21 le competenze dello Stato in materia mineraria passarono al Corpo Regionale delle Miniere. a cui furono affidati i servizi geofisici, geologici e minerari.
Nel sistema di coltivazione delle zolfare per pilastri e volte si registrarono la maggior parte dei grandi incidenti, come pure i numerosi infortuni, che succedevano con una certa frequenza.